ARPA BIRMANA
LA CERIMONIA A MONTE MANFREI Il 27 giugno il terreno su cui
è eretta la Croce, è stato consacrato e dedicato alla Repubblica
Sociale Italiana
Mario Abriani
Sono anni, molti anni, che veniamo qui, tra questi
monti impervi ed avari, a rendere un doveroso omaggio a duecento giovani
marò proditoriamente massacrati nei giorni della cosiddetta "radiosa
epopea della libertà". Anche quest’anno, e non poteva essere
diversamente, l’ultima domenica di giugno è stata una giornata particolarmente
inclemente quasi fossimo nel peggiore autunno.
Qualcuno potrebbe pensare ad un maleficio che ci
perseguita, io preferisco credere ad una partecipazione al nostro lutto,
al cielo che piange con noi l’assurdo sterminio di duecento giovani inermi.
Così sotto frequenti scrosci di pioggia,
che si alternavano a folate di vento freddo che strapazzavano labari e
gagliardetti, si è celebrata la Santa Messa e subito dopo una toccante,
bellissima cerimonia. Io cercavo di riandare con la memoria alla "ventura"
del Manfrei, emersa dal silenzio complice degli assassini, prodotto dalla
paura e dall’omertà, da quasi cinque decenni. E’ stata una coraggiosa
e meravigliosa donna, Noemi Castagnone, che, da sola, vagando per questi
monti a piedi, faticosamente riuscì a scoprire e a recuperare, con
l’aiuto e la protezione dei carabinieri, poco più di cinquanta salme,
che furono tumulate nel cimitero di Altare. Si sapeva, infatti, soltanto
che erano marò di San Marco, senza conoscerne il nome né
il reparto d’appartenenza, poiché gli assassini li avevano privati
d’ogni segno di riconoscimento. Con l’aiuto poi del dottor Giulio Zunini,
all’epoca sindaco di Urbe, riuscì ad ottenere dal Commissariato
Onoranze Caduti, di poter erigere nel 1954, su una spianata tra cespugli
e rovi una croce che ricordasse anche tutti gli altri caduti, ancora centocinquanta
circa, i cui miseri resti, era del tutto evidente non si sarebbero più
potuti recuperare. Questo non solo per la persistente situazione d’omertà,
ma anche per l’impraticabilità dei luoghi, pieni di forre e burroni
scoscesi, fitto sottobosco e pietre.
La croce ovviamente fu distrutta, ma con altrettanta
caparbietà, subito ricostruita.
Così ogni anno un certo numero di camerati,
soprattutto di Genova e di Savona, venivano in pellegrinaggio a Monte Manfrei.
Poi, negli anni settanta, quando la Castagnone, ormai vecchia, cessò
d’essere attiva, ci fu un lungo periodo di silenzio o quasi.
Finalmente nel 1984, certamente spinta dalla Castagnone
che non si dava pace, sapendo i suoi morti trascurati, un’altra donna piena
di amore e di coraggio, Rosa Melai, andò a Monte Manfrei in una
domenica di giugno con una decina di camerati di Genova e con un cappellano,
don Luigi Botto, che celebrò la Messa.
Il ghiaccio era rotto: rinacquero propositi ed iniziative.
Il dottor Zunini, ancora lui, si offerse di far erigere una nuova croce,
quella che ancora oggi esiste, e raccolse attorno a sé alcuni volontari
della zona che, sotto l’attenta e attiva guida di Michele Giusto, presidente
delle Fiamme Bianche di Genova, portarono a termine tutto quanto era necessario
fare.
L’inaugurazione della nuova croce avvenne nel corso
di una solenne cerimonia che ebbe luogo il 16 giugno del 1985. Ecco perché
tutti gli anni, la terza o la quarta domenica di giugno ci ritroviamo con
i nostri morti a Monte Manfrei.
Ogni anno, nonostante l’età di noi veterani
renda sempre più difficile la nostra partecipazione, vediamo ingrossarsi
le fila dei partecipanti, poiché cresce il numero dei giovani, siano
essi aderenti alla San Marco, alle Fiamme Bianche, e sono questi certo
i più numerosi, o ad altre associazioni.
A questi giovani noi abbiamo già trasmesso
idealmente il testimone.
Si può quindi legittimamente sperare che
la "ventura" di Monte Manfrei continui ancora per molti anni,
specie ora che un’altra donna coraggiosa e generosa, Silvana Gajone, ha
raccolto a sua volta l’eredità morale della Castagnone.
Infatti, nel 1996 la Gajone, in memoria della sorella
Gabriella, moglie del dottor Zunini, decise di acquistare i terreni circostanti
la croce, affidandone l’incarico al camerata Giusto, che dopo lunghe e
complesse trattative, ovviamente ostacolate anche da pressioni esterne,
riuscì a concludere l’operazione. Dopo la Messa, C.G. Baghino, Presidente
della UNCRSI, in un breve discorso ha ringraziato ed elogiato Silvana Gajone
per la sua donazione, e le ha consegnato un significativo riconoscimento
a nome di tutti gli ex combattenti della Repubblica Sociale Italiana, cui
il terreno è stato dedicato dopo la benedizione del sacerdote. Per
questo terreno, le Fiamme Bianche di Genova, che ne saranno i probabili
assegnatari, hanno manifestato un progetto molto ambizioso, quello di erigere
un Simbolo a perenne ricordo dei Caduti di tutti i Reparti, morti su tutti
i fronti ove si batterono i soldati della RSI.
Dopo l’intervento di Baghino, ho preso la parola
nella mia qualità di segretario della San Marco, e dopo avere a
mia volta ringraziato Silvana Gajone, le Fiamme Bianche per la perfetta
organizzazione del raduno, e tutti gli intervenuti, ho raccontato quanto
emerso recentemente da una lettura delle parti del Diario del Generale
Farina non pubblicate sulla storia della Divisione, che potrebbe aprire
uno spiraglio non per l’identificazione dei singoli Caduti, ma almeno per
precisare il loro reparto di appartenenza. Sino ad oggi si pensava che
fossero prevalentemente uomini del presidio di Sassello (1a Compagnia I/5°).
Ho scoperto invece nelle pagine del Diario personale di Farina che il 23
giugno del 1946 si trovavano detenuti nel carcere di Savona sia il Generale
Farina sia il Colonnello Sordi, Comandante del 5° Reggimento. Con loro
era detenuto anche il tenente Giorgio Giorgi, della Compagnia Comando del
5°. I due ufficiali superiori riuscirono a strappare al tenente Giorgi
la dichiarazione e che qui vi riportiamo alcuni stralci:
- "Carcere di Savona, 23 giugno 1946.
- Il 25 aprile 1945, nel pomeriggio, io sottoscritto tenente Giorgi
Giorgio, assumendone tutte le responsabilità, presentavo l’intera
Compagnia che comandavo (duecento uomini circa di cui cinque ufficiali,
armata ed equipaggiata al completo, ai partigiani della Brigata E. Vecchia,
Divisione MINGO, in località Palo, pattuendo l’incolumità
assoluta di tutti i dipendenti, cosa che fu accordata dal partigiano "Vanni"
comandante la brigata. Da Palo, avvenuto il disarmo e la consegna dei materiali,
fummo condotti a Vara ed ivi internati.
- Dopo tre giorni fui segregato dai soldati e condotto a Piancastagna,
sotto la sorveglianza dei partigiani del posto."
Poi continua, sostenendo che i detenuti del campo
di Vara sarebbero stati trasferiti a Sestri Ponente per consegnarli agli
alleati che li avrebbero condotti al campo di concentramento di Coltano,
ad eccezione di sei uomini, sottotenente Crupi, maresciallo Ameri, caporalmaggiore
Bertelli, sergente Piochi, caporalmaggiore tedeschi e caporale Ballo, tutti
del plotone ciclisti della Compagnia Comando reggimentale, che, denunciati
da tali Boccardo e Alamanni. vennero fucilati la sera del 1° maggio
nei pressi del cimitero di Sestri Ponente. Quindi spiega che il Boccardo
era un partigiano che essendo stato catturato dai San Marco dopo la cattura
aveva aderito alla RSI ed in seguito era finito alla sua compagnia, partecipando
volontariamente a tutte le azioni di rastrellamento fino a pochi giorni
prima del 25 aprile. Poi afferma che, saputo del trasferimento dei suoi
soldati da Vara a Sestri, ottenne di raggiungerli il due maggio. Qui incontra
il Boccardo che gli conferma la denuncia da lui sporta contro i propri
commilitoni e l’avvenuta fucilazione, ma stranamente, non ha nulla contro
il comandante stesso della Compagnia, e non si oppone quando grazie all’intervento
della partigiana Rizzo, il tenente Giorgi ottiene un lasciapassare per
raggiungere la famiglia.
Il Generale, dopo avergli fatto presente che:
- a. non aveva nessuna autorità per trattare la resa del reparto,
avendo ricevuto dal suo Colonnello (che presente lo conferma) l’ordine
di porsi alla testa della colonna diretta ad Acqui
- b. aveva imprudentemente trattato una resa che non aveva nessuna ragion
d’essere, solo verbalmente e per di più con un comandante in sottordine
non autorizzato
- c. che era molto dubbio il fatto che tutti i marò della compagnia
fossero stati consegnati agli americani, poiché tra Vara e Monte
Manfrei i marò erano stati trucidati a centinaia.
Noi per parte nostra ci chiediamo perché
sarebbero stati fucilati sei marò senza particolari addebiti se
non quello di che non quello di avere rivestito la divisa di San Marco,
perché tutti gli altri duecento sarebbero finiti in campo di concentramento,
ed invece proprio il loro comandante, già da subito separato dai
suoi uomini, avrebbe ottenuto un lasciapassare per tornare a casa?
Certo il numero di duecento componenti del reparto
coinciderebbe con il numero presunto dei Martiri di Manfrei.
Altro fatto da notare è che negli elenchi
di associati della San Marco, sia del primo che dell’attuale periodo, non
è mai figurato alcun appartenente alla Compagnia Comando del 5°
Reggimento. E’ quindi logico che a questo punto invitiamo coloro che ci
leggono a darci in proposito tutte le informazioni di cui siano in possesso.
Noi per parte nostra continueremo a cercare ancora
di fare luce su questo episodio non soltanto per acclarare una verità
e possibilmente dare un nome sia pure collettivo a questo gran numero di
morti ignoti, ma per inchiodare gli eroici partigiani che, dopo avere ottenuto
la resa con la frode, promettendo la vita salva a tutti, hanno massacrato
come è nel loro stile, dei soldati inermi.
SAN MARCO N. 20 Aprile Giugno 1998 (Indirizzo e telefono:
vedi PERIODICI)